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Sabato 5 novembre 2022 ore 17:30

PALAZZO ALBRIZZI

Venezia, Cannaregio 4118

 

Recital pianistico di Fabio Grasso

 

 

Franz Schubert (1797-1828)

 

Momenti musicali D 780

1. Moderato - 2. Andantino - 3. Allegro moderato

4. Moderato - 5. Allegro vivace - 6. Allegretto

 

Allegretto in Do minore D 915

 

Ungarische Melodie D 817

 

Wandererfantasie D 760

I. Allegro con fuoco ma non troppo

II. Adagio - III. Presto - IV. Allegro

 

 

Fra le raccolte schubertiane di brani brevi quella dei 6 Momenti musicali è particolarmente rappresentativa dello spirito più intimistico della creatività dell’autore. Rivolti al pubblico selezionato dei ristretti ambienti in cui Schubert operò per quasi tutta la sua breve vita, essi si presentano quasi del tutto scevri di virtuosismi propriamente detti, e ci lasciano cogliere, dietro l’apparente semplicità, segnali di una ricerca compositiva sofisticata, in primo luogo sulle sottili deviazioni dallo schema formale di base A-B-A, arricchito da vari tipi di suddivisioni interne, transizioni inattese, argute code. La notevole quantità di ripetizioni non incide sulla chiarezza e sull’essenzialità delle architetture, grazie alla molteplicità delle prospettive di lettura, che permette di diversificare ogni ritornello o ripresa proponendo un articolato ventaglio di sfumature espressive. A questo contribuiscono in misura determinante le varianti più o meno marcate che connotano soluzioni armoniche estremamente raffinate, spesso incorniciate nella scrittura accordale tipicamente schubertiana che mira ad ottenere sonorità dense ma mai dure: ne troviamo riscontri sia nel n. 6, un epilogo di cui l’offuscamento finale sul modo minore svela la natura intrinsecamente elegiaca, sia nel tema principale del n. 2, sia nel n. 1, ove dall’indagine sul timbro scaturiscono, specie nella parte centrale, sovrapposizioni di piani sonori che sembrano voler riprodurre morbidi colori orchestrali, come si evince ad esempio dalle figure ispirate ai richiami dei corni. Il tessuto armonico del pezzo conosce anche fasi di drastico assottigliamento in cui è ridotto a linea monodica, come accade all’inizio con le due mani all’unisono, o alla ripresa della sezione A, dopo che il tema è riemerso sotto ad una suggestiva fascia di ribattuti delicatamente risonanti nel registro medio-acuto, anch’essa certamente in grado di accendere fantasie orchestrali, e prima che i giochi imitativi ripristinino la spazialità polifonica. Fra l’altro una ben più evidente tendenza ad avvalersi di enunciazioni monodiche, da espandere poi sia in linee armonizzate sia anche attraverso imitazioni a canone, si nota nella porzione principale dell’Allegretto in Do minore D915, composizione che non appartiene ad alcuna raccolta, ma , per forma e per carattere, potrebbe essere considerato una sorta di momento musicale supplementare, per quanto un poco meno elaborato dal punto di vista compositivo. Va del resto detto che i sei Momenti musicali nella loro totalità presentano un’organizzazione complessiva perfettamente funzionale, con simmetrie tonali ben studiate: il n. 2 e il n. 6 sono accomunati dal La bemolle maggiore, così come il n. 3 e il n. 5 lo sono dal Fa minore; viceversa il n. 1 e il n. 4 si fronteggiano con le rispettive tonalità fra loro contrastanti di Do maggiore e Do diesis minore. Si genera così, nel passaggio da un Momento al successivo, un ciclo di relazioni di terza, prima in direzione discendente, da 1 a 4, e poi ascendente, da 4 a 6. La disposizione dei pezzi cura anche gli accostamenti di caratteri ben differenziati: ad esempio, mentre il breve e particolarmente celebre n. 3 cela la sua anima suadentemente nostalgica sotto le sembianze di una sobria marcia vagamente orientaleggiante, come dimostrano le analogie fra il suo andamento e quello della deliziosa Melodia ungherese D817, il n. 4 si apre con la rivisitazione di articolazioni tastieristiche bachiane, la cui iniziale severità si stempera gradualmente, man mano che il fraseggio acquisisce una libertà espressiva sempre più vicina alla sensibilità romantica, fino al completamento della metamorfosi suggellato nel giocoso candore dell’episodio mediano dalla nuova tonalità di Re bemolle maggiore (il cui dualismo con l’omologo e antitetico Do diesis minore d’impianto sarà ben presente ai compositori romantici, primo fra tutti Chopin). Netto è perciò il cambio di atmosfera avvertito all’irrompere del n. 5, il Momento più movimentato ed incalzante, col passo marziale di un tema sorretto da robusti accordi, al cui ritmo incessante dà effimera tregua solo un fugace crescendo di crome staccate. La brevità e l’assenza di un vero intermezzo, fattori condivisi col n. 3, gli conferiscono una coesione monolitica solo in minima parte incrinata dalla sorprendente coda in Fa maggiore, lampo di vivace ironia che si dissolve sull’avvio del placido Momento conclusivo. Possiamo individuare nel n. 2 il culmine espressivo del ciclo: il suo motivo principale, vale a dire l’elemento A della forma, dal profilo melodico minimale tralucente da armonie appena sussurrate, viene esposto per tre volte, sempre lievemente variato con criteri lucidamente consequenziali; le sue reiterazioni sono inframmezzate da una sezione intermedia B, secondo la formula A1-B1-A2-B2-A3, in cui si dispiega una linea in Fa diesis minore dall’impronta chiaramente vocale e dal tono narrativo accorato, con un’improvvisa esplosione di drammaticità all’inizio del secondo inserto, compensata da un eloquente, rasserenato ripiegamento sul modo maggiore; a questo sommesso finale di frase fa da ideale corrispettivo, nei segmenti A2 e A3, una coda tanto semplice quanto profonda, punteggiata da rintocchi sul pedale di dominante che portano avanti il ritmo puntato caratterizzante del tema principale. Viene spontaneo attribuire a questa chiusa un senso di dolce e definitivo commiato, pensando a certi Lieder dai contenuti testuali molto dolenti, la cui conclusione tragica viene ribaltata dalla lettura schubertiana in pacificazione rassegnatamente accettata o in tenero e sospirato atto di liberazione. Può per certi versi essere inquadrato in questo contesto il famoso Lied Der Wanderer, i cui versi, pur scritti da un poeta di non primissimo piano come Georg Schmidt von Lübeck, sono divenuti, grazie alla musica di Schubert, punto di riferimento per la definizione della figura romantica del viandante, simbolo di perenne inquietudine, ricercatore di mete utopiche condannato a restare sempre lontano dalla felicità, sia pure nella consapevolezza della nobiltà delle aspirazioni che coltiva. Geniale è la forma inedita, su misura, che Schubert construisce per questo testo: il Lied si articola in sezioni ben separate e nettamente diverse fra loro, senza ripetizioni, come un percorso senza ritorno di un viandante che non si guarda mai indietro, fatta eccezione per una struggente citazione che, poco prima della fine, fa risentire un motivo già esposto, non certo come ripresa strutturale, bensì come reminiscenza lontana di orizzonti agognati e perduti.

Secondo una prassi applicata anche ad altri Lieder, quali La morte e la fanciulla e La trota, Schubert trae dal Viandante un grande lavoro strumentale, in questo caso una Fantasia per pianoforte, detta per l’appunto “del viandante”, in quattro tempi collegati senza soluzione di continuità, che indubitabilmente sviluppa un virtuosismo molto più spinto e adotta una tecnica compositiva molto più speculativa e stringente (sul piano ritmico-motivico più che su quello strutturale) rispetto alle consuetudini del compositore. Il ritmo dattilico del tema più rilevante del Lied (quarto più due ottavi su una nota ripetuta) diventa la cellula fondante per tutti i quattro movimenti, variamente affiancata da altri materiali provenienti dal Lied. Il possente tema generato da tale cellula è inscritto nei solidi metri quaternari del primo e dell’ultimo movimento - in quest’ultimo diventa soggetto di un’esposizione di fuga -, oppure viene adattato all’agile scansione ternaria del terzo tempo, che coniuga il brioso incedere di uno Scherzo con la grazia danzante di un Ländler. Solo all’inizio dell’Adagio il motivo del Wanderer appare così come è nel Lied, fungendo da tema per una serie di originalissime e sublimi variazioni

Probabilmente il rigore dei processi di derivazione tematica, l’imponenza della struttura globale e l’ardua sfida pianistica della Fantasia hanno indotto molti interpreti a concentrare l’attenzione sugli aspetti tecnici e formali: si è spesso notata una propensione ad assimilare l’opera al repertorio sonatistico e a perseguirne una resa incentrata sulla potenza, sulla velocità, sul ferreo inquadramento del fraseggio e sulla precisione metronometrica.

Fermo restando il rispetto per alcune motivazioni fondate di una simile impostazione, occorrerebbe tuttavia non dimenticare la matrice “fantastica” di questo capolavoro e l’origine della sua ispirazione.

Sarebbe innanzitutto il caso di discuterne la lettura iper-sonatistica, comprensibile se si guarda solo alla veste macroformale esteriore, ma non giustificata se si analizza la sostanza: solo nel primo movimento si può individuare una parvenza di esposizione bitematica, e solo avventurandosi in teorie non poco azzardate si potrebbe forzare il riconoscimento, in ciò che segue, dei simulacri di uno sviluppo e di una ripresa di forma-sonata o magari di rondò-sonata - forme di cui non si trova peraltro la minima traccia nei movimenti successivi. Sembra più affascinante considerare la Fantasia come una splendida estensione del Lied: un variegato cammino che si snoda liberamente attraverso territori sempre nuovi, lungo il quale il viandante alterna slanci entusiastici a inabissamenti introspettivi, lasciandosi stupire da ogni scoperta, assaporando senza fretta ogni esperienza, mantenendo sempre viva la memoria - musicalmente rappresentata dalle costanti che percorrono l’intero brano -  e la coscienza della levatura spirituale e morale della propria missione, come d’altro canto insegna l’archetipo del Wanderer faustiano. Già nel concludere il Lied Schubert sembra voler tralasciare l’enfatizzazione del destino di infelicità del suo Wanderer per celebrarne quella levatura, coi toni pacati e riflessivi che le parole della poesia gli richiedono; forse, nell’Allegro che pone termine alla Fantasia, svincolato da condizionamenti testuali, il compositore ha deciso di trasformare quella celebrazione in apoteosi sinfonica, libera sintesi finale che, lungi dal proporsi come mero e rutilante esercizio di bravura, serba in sé tutta la pregnanza del viaggio di cui è traguardo trionfale, e necessita dunque che il virtuosismo, anziché rischiare di inficiarla, si metta al servizio della sua maestosa solennità.

Fabio Grasso - www.fabiograsso.eu - www.rosenfinger.com

 

 

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