Fabio Grasso

 

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Fabio Grasso si è diplomato in pianoforte a 17 anni al Conservatorio di Torino con lode e menzione dopo aver studiato al Liceo Viotti di Vercelli con Mario Barasolo e Jean Micault. È anche diplomato in Composizione (Milano), laureato con lode in Lettere classiche (Università del Piemonte Orientale), e titolare di Diploma Accademico di 2° livello in Pianoforte (Alessandria) con lode e menzione. Si è perfezionato in pianoforte con Marco Vincenzi e Maria Tipo, mentre per la composizione è stato allievo fra gli altri di Sandro Gorli e Giacomo Manzoni. È docente al Conservatorio di Venezia.

Vincitore del Concorso pianistico XXème siècle di Orléans, ha suonato nelle più importanti sale di Parigi (Salle Gaveau, Salle Cortot, CNSM, Chatelet, Radio France), Orléans, Radio France Montpellier, Colmar (Festival Michelangeli), Maastricht, Erfurt ed altre città europee. Nel 1999 è stato premiato al Concorso Busoni di Bolzano. Ha inciso 4 dischi, per le case Solstice ed Euterp.

Come compositore ha vinto i Concorsi di Buenos Aires e Marsiglia, e ha avuto svariate esecuzioni in importanti città europee e americane, come Milano, Firenze, Roma, Berlino, Parigi, Amsterdam, Buenos Aires e Montreal. Attualmente sta eseguendo l’integrale delle Sonate di Beethoven per la Società del Quartetto di Vercelli.

 

www.fabiograsso.euwww.rosenfinger.com

 

Fra i progetti condivisi di Fabio Grasso e Letizia Michielon figurano le integrali degli Studi di Ligeti e Chopin. Hanno recentemente partecipato a festival e rassegne a Reggio Emilia, Milano, Venezia, Alessandria, Perpignan, Limoux, Bratislava, e hanno tenuto concerti affiancati a masterclass presso le Università di Graz, McGill di Montreal, Accademia Chopin di Varsavia, MDW di Vienna, e prossimamente New York Univerisity.

È prevista l’uscita di un doppio cd con le loro esecuzioni dell’integrale degli Studi di Ligeti associata a quella degli Studi di Chopin.

Letizia Michielon e Fabio Grasso

 

 

“Diptychon – A” Omaggio a Emilio Vedova

Per pianoforte a 4 mani

 

Da una lettera a un amico, di Emilio Vedova, luglio 1964

« Il plurimo, in sé - prima di una teoria di movimento, di multiple possibilità - è la necessità di mobilitare i vari piani gestuali, lo spingersi di questi nello spazio; nel quotidiano. fra noi. Come presenza, come subito-gesto-dichiarazione, pittura che "si fa" nel suo muoversi.

Nel caso di questi miei plurimi berlinesi, una simultaneità di presenze, sentimenti, fatti avvenuti, che avvengono, che non possono non provocare chi arriva in questa città gravida di diverse "paure": ieri, oggi, di latente dimenticanza, di equivoci; di malinconie anacronistiche; di reciproci antagonismi sovreccitati; di scontri di situazioni.

A Berlino sono tornato, sono venuto a lavorare per rendermi conto, de visu, ancora, poter rintracciare, dopo le mostruose incrostazioni naziste, nelle strade, nella sua inquieta babelica vita, lo spirito democratico, critico, che animò un tempo Grosz, Dix, Beckmann... Dada Berlin!»

 

Nel descrivere il suo rapporto con la Berlino del 1964, Emilio Vedova coglie con acume straordinario l’essenza “plurima” di quella città, un’ispirante incarnazione della sua teoria estetica della molteplicità, della compresenza e della mobilità di più piani spaziali, temporali, gestuali – impressione che appare ancora vividamente attuale, a dispetto degli epocali mutamenti sopravvenuti.

La struttura e le idee costitutive di “Diptychon – A” sono concepite in modo da riflettere la tensione verso la duplicità che percorre le opere berlinesi del pittore in quel periodo, il senso dell’ambiguo, dell’”antagonismo sovreccitato” fra due princìpi contrapposti, sia attraverso la cadenza essenzialmente binaria dell’articolazione formale, sia tramite l’enfatizzazione di ogni altro aspetto “duale”, primo fra tutti l’azione combinata dei due esecutori, fra contrasto e complementarietà, con frequenti interscambi di ruoli.

Le ripetizioni deformate di svariate figurazioni, in una sorta di eco che si dissolve, è un ulteriore richiamo alla duplicità, e ammicca al sentimento di “latente dimenticanza” evocato nell’artista dallo spirito della città, provando talora a velarsi anche di una certa “anacronistica malinconia”.

(Fabo Grasso)