22 Novembre 2013, Conservatorio B. Marcello di Venezia

FABIO GRASSO, pianoforte

SCHUMANN: Jean Paul e la maschera

 

Programma:

Papillons op. 2, Faschingsschwank aus Wien op. 26

Blumenstück op. 19, Carnaval op. 9

 

Probabilmente nessuna opera letteraria ha mai ispirato in modo così fecondo una produzione musicale quanto gli scritti di Jean Paul hanno fatto con una nutrita serie di brani pianistici di Schumann, soprattutto in virtù dell'ipersensibilità di quest'ultimo nell'elaborare in senso musicale gli spunti di più varia provenienza, e in particolare quelli letterari. Il poco più che ventenne Robert, fra entusiasmi, incertezze e delusioni di un percorso esistenziale e formativo non ancora pienamente definito, trova in Jean Paul un autentico faro, che col suo stile frammentario, sorprendente, sarcastico, imprevedibile soddisfa in tutto e per tutto i gusti estetici del giovane compositore, refrattario alle regole costituite, alle convenzioni dell'accademismo, spirito curioso ed irrequieto sempre in cerca di vie personali mai battute. Fervente ammiratore dei pezzi brevi di Schubert, ne individua in Jean Paul un corrispettivo letterario, e trova nel penultimo capitolo del suo romanzo Flegeljahre una potentissima scintilla ispiratrice da cui prende avvio con Papillons op. 2 un viaggio creativo inimmaginabilmente straordinario.
La scena in questione, un ballo in maschera, è il perfetto ritratto di uno dei volti del Romanticismo tedesco, quello dell'Humor carnevalesco, dell'ironia della maschera cangiante, del cambiamento improvviso di situazione e di stato d'animo, del celarsi dietro a un'identità esteriore per poi inopinamente e candidamente svelare quella autentica. Ma Jean Paul va anche oltre questo. "Cosa si può desiderare ancora, in quest'ora ebbra di spirito, se ci si riconosce come spiriti senza corpi fluttuanti nei campi elisi?". Così si esprime Walt dopo aver intuito l'identità di alcuni suoi compagni di danza mascherati.  Walt è il personaggio jeanpauliano che nell'immaginario di Schumann diviene Florestan, il lato impetuoso della personalità del compositore, contrapposto ad Eusebius, il volto introflesso e pensoso, che nel romanzo ha le sembianze del fratello Vult. La maschera è la porta attraverso cui spiccare il volo liberatorio e leggero nel regno della spiritualità, "come con ali di farfalla", "come corpi celesti in uno spazio etereo", grazie all'azione della danza, giacché "la musica è la terra delle anime, mentre la maschera lo è dei corpi". Il ballo in maschera assurge a metafora del gesto poetico, e addirittura dell'esistenza stessa: "La storia del genere umano può apparire solo come una lunga mascherata danzante... noi siamo un fuoco d'artificio che un potente Spirito fa ardere in figure variegate".
La suggestione di questi pensieri non si sarebbe fermata, in Schumann, alle fuggevoli, per l'appunto "farfallesche" miniature di Papillons, che pure nel loro rapido e delicato fluire già delineano i tratti principali di tutto un mondo creativo. La frase introduttiva è come un sipario che si apre su orizzonti che l'autore è ansioso di esplorare, e che non potevano essere limitati entro i confini di questi dodici brevissimi pezzi, nel corso dei quali tuttavia, Schumann a poco a poco riconosce, guardando attraverso i veli delle varie maschere, il cuore del pensiero estetico che guiderà tutta la prima cruciale fase della sua produzione. Musicalmente esso si esplicita nel tema dei Davidsbündler, sapientemente costruito attraverso un processo graduale di svelamenti parziali, come accade con le "Halb-Masken" e coi giochi enigmistici di Jean Paul, fino all'epifania conclusiva. Nel brano n. 12 questo motivo, una volta scoperto ed enunciato con pienezza orchestrale di suono nelle sue vere e definitive sembianze, viene subito riposto nella memoria, interiorizzato, accuratamente custodito per futuri sviluppi: questa è l'impressione che viene dal suo mirabile intrecciarsi sol tema dell'inizio, e dalla sua quasi magica dissolvenza su un lungo pedale di tonica, attraverso il quale echeggiano rintocchi di orologio quasi a scandire la fine di questo ballo e l'inizio di un nuovo tempo per nuove creazioni, che può cominciare proprio grazie alle rivelazioni venute da questa esperienza.
Non poteva dunque che essere il Carnevale a fornire i nuovi spunti ispiratori per portare avanti il discorso avviato da Papillons, posto al centro dell'attenzione di questo concerto, in cui gli si affianca però, ad integrazione, un altro possibile punto di contatto con Jean Paul, molto più sottile e meno evidente, ma sempre legato al cambio di identità: Blumenstück è infatti anche il titolo misteriosamente floreale della prima parte del romanzo Siebenkäs, la cui trama, potremmo dire pirandelliana ante litteram, ruota attorno agli sdoppiamenti di personalità, alla presenza di un alter ego, all'assunzione di una nuova identità dopo la messa in scena di una finta morte. La singolare forma dell'op. 19 è un ibrido fra il rondò e le variazioni; lo stesso semplicissimo motivo dà vita a otto brevi episodi tematicamente collegati, dei quali i pari costituiscono una sorta di refrain che ogni volta si presenta con caratteristiche espressive o tonali diverse, distinguendosi dai brani dispari per l'inflessione decisamente più narrativa e colloquiale, come se si trattasse dell'interpunzione di una voce narrante che si inserisce a commentare quanto appena udito - elemento questo che rivela un retro-pensiero letterario (sia esso pienamente conscio o meno) alla base dell'ispirazione.
Con l'op. 9 il filone carnevalesco raggiunge il culmine della sua ricchezza espressiva. Qui la sfilata di maschere mostra volti ben definiti ed esplicitamente nominati, immaginari e reali, metafore, simboli e colonne portanti dell'estetica e della vita di Schumann. Ogni maschera, che sia o meno propriamente carnevalesca, è portatrice di un aspetto della sua personalità, straordinariamente complessa, e di un pensiero musicale ormai chiaramente maturo. Le figure di Chopin e Paganini vengono evocate come alleati della sua battaglia estetica, mentre i richiami a Clara Wieck ed  Ernestine von Fricken (Chiarina ed Estrella) mettono in campo un sostegno anche affettivo oltre che intellettuale. Se è superfluo soffermarsi sull'importanza di Clara, lo è forse meno rimarcare quali fondamentali capolavori siano scaturiti a seguito del legame con Ernestine: basterà ricordare come le lettere del suo paese di origine, Aesch, costituiscano le "quattro note" su cui sono composte le "scènes mignonnes" del Carnaval, immortalate, ancora una volta con gusto jeanpauliano per l'enigmistica, nel brano "muto" Sphinxes, destinato alla sola esistenza grafica in partitura e non all'esecuzione, con intuizione di modernità sconvolgente. Per inciso, non va poi dimenticato che il tema da cui si sviluppano le variazioni degli Studi Sinfonici op. 13 fu scritto, almeno in parte, del padre della stessa Ernestine. Non a caso il brano più rappresentativo della poetica della maschera appare appena dopo il trittico Chiarina - Chopin - Estrella: si tratta di Reconnaissance, evidentemente "riconoscimento" e non "riconoscenza", il cui giocosissimo tema iniziale all'improvviso, attraverso una modulazione inattesa e una repentina attenuazione delle dinamiche, si toglie la maschera rutilante e mostra un volto illuminato da un sorriso di dolcezza sconfinata e di profondità abissale. Difficile pensare che un tale volto non venga associato, da chi ha la genialità per disegnarlo, a quello di una figura appartenente al novero degli affetti più cari. Tutta questa variopinta galleria di personaggi trova infine il suo tratto unificatore proprio nel tema dei Davidsbündler, che come in Papillons appare nell'epilogo, ma qui con moltiplicata potenza, con irruenza maestosa, a suggellare la marcia vittoriosa delle forze innovatrici che travolgono le "filistee" resistenze delle componenti reazionarie dell'ambiente musicale dell'epoca.
Il Carnaval è il trionfo dell'esuberanza compositiva giovanile di Schumann, il passaggio in cui gli "spigolosi valzer" (per dirla con Jean Paul) e soprattutto le fiabesche, eroiche cavalcate di ritmi puntati, già tratteggiate in Papillons, conoscono il loro massimo ed irripetibile fulgore. Da qui in poi, ogni loro ritorno comincerà ad essere gradualmente velato da qualche ombra, come nella già citata op. 13, oscurato da inquietanti premonizioni, come in Kreisleriana, mitigato da profondissime pause di riflessione, come nella Fantasia op. 17.
Arriviamo così al cruciale inverno viennese del 1838-1839, durante il quale le vicende biografiche e professionali da un lato, e le riflessioni esistenziali e musicali dall'altro conducono Schumann all'intimo convincimento che una svolta sta per segnare la sua vita e la sua produzione. Accettarlo è tutt'altro che facile. Il travaglio di questo percorso è testimoniato soprattutto da due grandi opere pianistiche. Innanzitutto l'Humoreske op. 20, ciclo sul modello formale di Kreisleriana ma con brani meno nettamente separati, nel quale lo spirito umoristico-carnevalesco emerge a folate facendosi strada in un'atmosfera prevalentemente elegiaca, con la quale si genera un conflitto sostanzialmente irrisolto, ben rappresentato dagli struggenti interrogativi del finale e dalla bizzarra, inaspettata risposta conclusiva. Un diverso quadro di questa situazione interiore ci viene offerto dall'op. 26, Faschingsschwank aus Wien, sbrigativamente tradotto Carnevale di Vienna, più propriamente "scherzo di Carnevale", o "scena carnevalesca" da Vienna. Suite di cinque brani diversissimi fra loro, da eseguire pressoché senza interruzioni, questo lavoro concentra quasi tutta la sua essenza carnevalesca nel pezzo n. 1, vivace e variopinto rondò in cui le atmosfere di Papillons e Carnaval sembrano esasperate fino alle estreme conseguenze, con la ripetizione quasi ossessiva del refrain, alternato a scene in maschera non descritte né intitolate, fortemente contrastanti fra loro, con un'ampia gamma di accenti dal sorridente al frenetico fino al grottesco, come nel caso dell'allusione alla marsigliese (può darsi che al Carnevale di Vienna Schumann si fosse imbattutto in qualche rappresentazione parodistica di costumi napoleonici, e in tal caso doveva esserne rimasto senz'altro colpito, dato il suo grande interesse per le storia francese fra XVIII e XIX secolo). Pare quasi che l'autore cerchi ostinatamente di tenere in vita, ad ogni costo, le manifestazioni di un sentire che sta lentamente prendendo nuove vie. Quanto mai illuminante a questo proposito è la coda del primo brano: quando il refrain inizia ad estinguersi, quasi stanco dell'ennesima ripetizione, i suoi elementi ritmico-melodici ritornano sommessi ed interroganti, quasi imploranti nella richiesta di conoscere il loro destino. Alla chiusa apparentemente rassicurante fa seguito, in modo davvero impressionante, il desolato attacco della romanza, connotato da un intervallo di settima maggiore discendente (coniugato poi anche come seconda e come nona), che scandisce il tempo desertificato di quasi tutto questo movimento, come a raffigurare il risveglio da un sogno irrealizzabile, o il profondo vuoto che segue una grave perdita. Ad esorcizzare questa desolazione, pur mitigata dalla tenerezza consolatoria della sezione centrale, arriva di colpo lo Scherzino, emanazione del primo movimento, rispetto al quale conserva toni decisamente più lievi e giocosamente scherzosi. Appena questo si chiude, coi ritmi di marcia che si allontanano e si riavvicinano come se fossero eseguiti da un gruppo strumentale dai movimenti imprevedibili, il clima muta ancora una volta radicalmente con l'irruzione del quarto pezzo, da eseguire "con la più grande energia". Siamo qui in presenza di un'autentica confessione, totalmente aperta e sincera, una sorta di sfogo in cui tutto il dolore represso nel silenzio o sotto il clamore delle mascherate erompe con impeto incontenibile, senza filtri, esponendosi coraggiosamente in tutta la sua lancinante tragicità. Non si può non scorgere in questo un processo catartico, anche in considerazione della sorpresa che segue: mai in un ciclo come Carnaval o Kreisleriana si sarebbe potuto ipotizzare un finale in forma-sonata, dato il fortissimo impegno estetico in chiave per così dire antiaccademica di quei lavori. Il finale dell'op. 26 è invece una perfetta, brillantissima forma-sonata. Non poteva esserci segno più chiaro di un avvenuto cambiamento di prospettiva: potremmo parlare di una sorta di definitiva conciliazione fra le istanze della "rivoluzionaria" forma breve e quelle della grande forma tradizionale, rapporto che aveva in precedenza vissuto qualche momento di conflittualità nell'itinerario creativo schumanniano; un traguardo che diventa punto di partenza per le grandi costruzioni cameristiche e sinfoniche degli anni successivi, nelle quali la forma-sonata schumanniana assumerà gli inequivocabili tratti distintivi di spartana essenzialità tematico-espositiva. recuperando nei ricchi sviluppi tutta l'esperienza costruttiva, il mestiere elaborativo e lo spirito pugnace maturati nel fulgido decennio dei grandi cicli pianistici giovanili. Possiamo in fondo leggere nel finale dell'op. 26 l'ultimo atto di "reconnaissance", il più carico di frutti forse inattesi, l'ennesima ricaduta creativa, a notevole distanza di tempo, di una lettura che per un qualsiasi altro ventenne sarebbe probabilmente rimasta un piacevole diversivo, e che per un genio della portata di Schumann resta invece inestinguibile fonte - e solo una delle tante - di idee folgoranti e di trovate innovative destinate a rimanere scolpite nella storia.

Fabio Grasso